Secondo Giovanni Lo Storto, direttore generale della Luiss, una buona università è necessaria ma non sufficiente per garantire lo sviluppo
Il 47% dei datori di lavoro italiani riferiscono che le loro aziende sono danneggiate dalla loro incapacità di trovare i lavoratori giusti, e questa è la percentuale più alta fra tutti i Paesi esaminati». Il dato emerge nel Rapporto McKinsey condotto su otto Paesi Ue e presentato nei giorni scorsi a Bruxelles. Lo studio fa notare che si lamenta anche il 45% degli imprenditori greci, il 33% degli spagnoli, il 26% dei tedeschi. Ma il dato italiano è il più elevato e questa nuova percentuale si aggiunge a quelle che dipingono a tinte fosche il quadro occupazionale nel Paese. Già, perché il Rapporto McKinsey rileva che «la disoccupazione giovanile in Italia è raddoppiata dal 2007, toccando il 40% nel 2013», e andando anche oltre nel Mezzogiorno. «Intanto, proprio nel Sud le aziende assumono meno dipendenti di quanti prevedessero. Oltre allo studio McKinsey, anche il Rapporto Excelsior 2013 fornisce informazioni a questo proposito», commenta Giovanni Lo Storto, economista, direttore generale della Luiss e Cavaliere dell’Ordine al merito della Repubblica Italiana. «E sono informazioni interessanti — aggiunge Lo Storto — perché nel Mezzogiorno i posti di lavoro creati nel 2013, rispetto al 2012, sono tra il 13 e il 14% in meno in Puglia e Campania, e analizzando nel dettaglio si scopre che a Benevento i posti in entrata sono stati il 30,2% in meno e a Foggia il 33% in meno. Un bilancio pesantissimo».
Direttore Giovanni Lo Storto, lo studio McKinsey sostiene che inostri laureati non rispondono alle esigenze delle aziende. Eppure, nel Sud come nel Nord, ci sono numerosi atenei molto qualificati…
«La quota di laureati che ritengono di disporre di una preparazione adeguata è abbastanza elevata, circa il 38%. Eppure in Italia, diversamente da altri Paesi, la mancanza di competenze, di quelle che le aziende non trovano, costituisce un danno per il business per il 47% degli imprenditori intervistati».
Allora delle due l’ima: o scuole, università ed enti di formazione non forniscono una preparazione adeguata, oppure gli imprenditori affermano cose inesatte.
«Io credo che ci sia una forte distanza tra le esigenze del mondo del lavoro e quello che viene insegnato ai ragazzi. Ma certamente sulle mancate assunzioni pesano vari problemi, come dimostra un altro studio molto interessante a cura del nostro Stefano Manzocchi, di Beniamino Quintieri e Gianluca Santoni. Il volume è intitolato Le cento Italie della competitività. La dimensione territoriale della produttività delle imprese ed è stato pubblicato da Rubbettino pochi mesi fa. Il lavoro, molto originale, attraverso un campione di 15 mila imprese elabora un ranking delle province in base alla loro capacità di offrire un terreno accogliente alle imprese per sviluppare il loro business».
Evidentemente sono stati presi inconsiderazione aspetti che vanno ben oltre l’istruzione e la formazione.
«Certo. L’urbanizzazione, i servizi, il sistema finanziario, il tasso di criminalità. Su 103 province, Napoli si colloca al 77° posto, ma tra le ultime ci sono Bari, novantaduesima, Benevento, novantacinquesima, Caserta al 97° posto, Taranto novantottesima e Foggia, ahimè visto che sono foggiano, ultima. Allora, non c’è dubbio che non si possa puntare il dito contro le università pugliesi e campane. Anzi, alcuni dei loro dipartimenti primeggiano a livello nazionale. Ma se è vero che le eccellenze ci sono dovunque, è vero anche che non basta un buon dipartimento o una buona università per garantire lo sviluppo se il contesto socio-culturale è basso».
Quindi un ateneo d’eccellenza non costituisce un traino per il territorio sul quale insiste, è così?
«No, però un intero sistema educativo, a partire dal primo livello, può costituire un traino per lo sviluppo. Quindi occorre rimboccarsi le maniche per cambiare tutto il sistema».
Cambiare il sistema è possibile, ma scuola e atenei pubblici scontano in misura significativa la crisi. Come si esce dal guado?
«Partendo dai ragazzi. Noi della Luiss ne incontriamo tanti quando andiamo nelle scuole a proporre una nuova formula di orientamento che non è mirato alla vendita. I diciottenni di oggi hanno capito che il posto fisso non esiste più, anche perché avevano 10-11 anni quando si è cominciato a parlare di crisi finanziaria negli Stati Uniti. Sono cresciuti senza mai aver conosciuto un mondo non pervaso dalla parola crisi. Per loro questa è anche una forza. Il nostro compito è fornire loro strumenti per comprendere, scegliere, per fare di testa propria. È molto importante considerando che in Italia, e nel Sud in particolare, l’abbandono degli studi è molto alto».
Giovanni Lo Storto, ma come faranno a capire quali siano le esigenze delle aziende?
«Invertiamo la lettura del problema. Come potrebbero sapere quali saranno le tendenze del mercato cinque anni dopo? La necessità più urgente è comprendere quali sono i segmenti per i quali si sentono più portati, per cui nutrano più passione, curiosità. Molti campi di studio sono stati semplici mode e il numero chiuso talvolta dà l’illusione che chi ci rientra possa poi trovare un posto fisso. Ma non è così. Per questo abbiamo creato una Summer School per i ragazzi del quarto anno di superiori che possono frequentare intere giornate di lezioni universitarie di economia, giurisprudenza, scienze politiche, matematica, ingegneria, medicina, quindi anche di corsi che noi non offriamo. L’obiettivo è acquisire consapevolezza. È molto utile, inoltre, che studio e lavoro non siano mondi separati, anzi che si incrocino in modo continuativo. Ragazzi motivati, che effettuano scelte di studio consapevoli, sicuramente sono in grado di inserirsi più agevolmente nel mondo del lavoro. E poi…».
E poi?
«Poi è sbagliato sottrarre ai ragazzi la possibilità di sognare e di perseguire i propri sogni. Al contrario, dobbiamo metterli in condizione di fare quello che a loro piace. Solo così lo faranno al meglio».
FONTE: Il Corriere del Mezzogiorno
AUTORE: Angelo Lomonaco
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