Giovanni Lo Storto
Istruzione

Giovanni Lo Storto: in un editoriale sul “Corriere della Sera” la sua riflessione sullo stato di salute delle università

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Inizia con una provocazione l’editoriale di Giovanni Lo Storto ospitato sul portale del “Corriere della Sera”: il de profundis delle università è reale o una semplice diceria? Durante la pandemia, sottolinea il Direttore Generale della Luiss Guido Carli, le università in realtà hanno garantito la continuità delle attività didattiche e, non da meno, hanno fornito quella materia prima – la ricerca – “che sta contribuendo alla elaborazione e alla soluzione della crisi”. Questo testimonia quanto siano un elemento fondamentale e irrinunciabile della nostra società. La corrente pessimista si scontra con i dati che sottolineano l’ottimo stato di salute dell’università: nonostante non ci sia un database ufficiale, il numero di istituti oscilla tra i 15mila e i 25mila. Andando più nel dettaglio, Giovanni Lo Storto evidenzia come in Europa siano più di 2.700 le istituzioni universitarie, in Nord America oltre 1.800 e in Cina 30 milioni di studenti frequentino i corsi di 3.000 atenei, 1.200 dei quali fondati nelle ultime due decadi. In India, un migliaio di università impegnano tra i 20 e i 25 milioni di studenti, numeri impressionanti se messi in correlazione con quelli europei a inizio del ‘900, quando in tutto il continente si potevano contare appena 600mila studenti, un terzo di quelli che ci sono attualmente solo in Italia. Ma quindi esattamente che cosa avremmo perso rispetto al passato? Dal dopoguerra in poi abbiamo assistito a una moltiplicazione degli atenei e del numero di studenti e studentesse, con una conseguente democratizzazione del sapere, “un tempo privilegio dei rampolli delle élite”. Gli anni ’80 e ’90 hanno portato invece ad una amministrazione degli atenei “con modelli aziendalistici, in un mercato competitivo che si disputa la scelta dei futuri studenti”. Tale cambiamento ha però portato a mettere in discussione un apparato ideologico che “pur partendo da un presupposto semplice da condividere (i più bravi sono premiati) genera, come effetto collaterale, gravi storture. Vedi l’idea implicita che esistano «una» conoscenza e «un» sapere, o quanto meno un range di parametri misurabili sui quali costruire la lista dei «migliori»”. Fernand Deligny, grande pedagogista francese, ci ha mostrato un secolo or sono che alcuni minori “irrecuperabili” andassero rivelati più che repressi, fatti “deragliare” piuttosto che ricondotti sui binari. Attualmente, “noi abbiamo invece la fortuna di lavorare con ragazzi che la nostra società definisce tutt’altro che complicati, anzi, li propone come modelli”, evidenzia nel suo articolo Giovanni Lo Storto. Eppure ne stiamo mortificando i valori, “illudendoci, a volte, che l’innovazione tecnologica possa supplire alla mancanza del «qualcos’altro»”. Compito dell’insegnante dovrebbe essere quello di reinventare sempre il proprio lavoro, non dimenticandosi della tradizione pedagogica precedente. “Occorre riflettere su come non sarà certo la riduzione a parametri quantificabili a salvare l’istruzione, il centro nevralgico del nostro benessere, ma tantomeno sarà utile riservarne l’accesso a una élite: non è il principio meritocratico a generare mostri, bensì la mancanza di uguali opportunità per tutti”, conclude il DG dell’Università Luiss Guido Carli.

Per maggiori informazioni:
https://www.corriere.it/opinioni/21_dicembre_16/universita-uguali-opportunita-tutti-superare-crisi-0f8e291a-5e96-11ec-bd4c-ff71c0b97a67.shtml

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